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Quando un’opera diventa d’arte?

Autore: Mariaelena Castellano | Pubblicato Luglio 2016 in Cultura

Duecentomila, cinquecentomila, un milione di euro. Quante volte sentiamo ai telegiornali notizie di cifre da capogiro per un’opera d’arte? Magari storciamo il naso. E c’è chi dice: «Questo scarabocchio qui, lo saprei fare anche io!». Ma se a farlo sarà davvero l’audace osservatore, che ha osato esprimere questo parere, il suo operato, con ogni probabilità, non riceverà alcun tributo d’onore.

Vien da chiedersi: cos’è che rende un’opera artistica tale da essere considerata un capolavoro? Quali sono i criteri per valutarla e fornire un giudizio obiettivo? Se fino al XIX secolo, fare arte equivaleva a riproporre la realtà visiva, se pur con connotazioni diversificate, a seconda delle correnti artistiche dominanti e delle caratteristiche individuali degli artisti, a partire dal secolo scorso, il discorso cambia radicalmente.

Pablo Picasso sentenzia: «La natura è una cosa, la pittura un’altra», e con queste parole decreta la fine del ruolo di mimesi della realtà nell’arte, aprendo inedite, sorprendenti possibilità espressive, che si sono susseguite a ritmo incalzante, in un lasso di tempo minimo. In pochi decenni, lo scenario artistico internazionale è stato completamente stravolto da un nuovo modo di fare e concepire l’arte.
Si è passati dalla pura astrazione formale all’Optical Art, dall’impiego di materiali più disparati alle performance artistiche intese esse stesse come opere. Dalla fruizione estetica di un’immagine a quella concettuale, legata al pensiero e all’interazione dell’osservatore. Dai recuperi della tradizione reinterpretati con il fervore innovativo del tempo alle audaci soluzioni iperrealiste.

Come valutare, dunque, una così variegata produzione, non potendo più far riferimento a criteri legati alla figuratività? Il passaggio all’arte come produzione di massa, avvenuto intorno agli anni ’50 del ‘900, ha prodotto conseguenze complesse nell’ambito della critica, ora non esente da implicazioni speculative.
Quando il dadaista Marcel Duchamp presentava i suoi ready made, oggetti decontestualizzati e riproposti come opere d’arte, intendeva proprio far riflettere su questo punto cruciale: lui è l’artista e in quanto tal, può permettersi di non realizzare un lavoro, ma di scegliere un oggetto qualsiasi e investirlo di un valore artistico.

Ma chi sceglie le carte in tavola? Illustri critici, emeriti teorici, certo, ma anche l’opinione pubblica potrebbe dire la sua. Quanti artisti operano silenziosi nelle molteplici realtà
territoriali? Quanti di loro potranno avere la fama ricercata? Devono farsi largo, crearsi un nome, avere il coraggio di proporsi, di affidare la propria buona sorte a un pezzo grosso del settore: un quotato gallerista, un apprezzato critico che potrebbe sancire la loro affermazione. Sicuramente. Eppure ciò non basterebbe a un pieno esito di realizzazione professionale. Serve ancora altro, a prescindere dalla logica, spesso corrotta, dei facili guadagni. Occorre operare con passione e mirare a scuotere quelli che saranno i fruitori dell’opera. Per emozionarli. E aprirli così al fascino suggestivo della creazione artistica.