Autolesionismo: farsi male per stare bene
A gennaio 2018 i media nazionali hanno riportato il caso di cinque ragazzini tra i 12 e i 14 anni di una scuola media del cosentino, di cui quattro all’interno della stessa classe, protagonisti di autolesionismo: avrebbero usato lamette, vetri, lattine per prodursi ferite su braccia e gambe per poi inviarsele sui telefonini; sono stati intercettati da una loro docente, insospettita da alcune battute tra studenti e dalle ferite sulle braccia di alcune ragazze. Andando a ritroso nei mesi, a maggio 2017, la cronaca riportava di quattro casi di autolesionismo registrati all’ospedale Salesi di Ancona: nell’arco di un mese, questi ragazzini, tutti attorno ai 10 anni, si sono presentati al pronto soccorso con tagli sulle braccia o sulle cosce autoinferti con lamette, mentre a giugno 2017 è stato segnalato il caso di una tredicenne in provincia di Siena con tagli sull’avambraccio sinistro e sul palmo di una mano. I casi che vengono alla ribalta della cronaca sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno adolescenziale pericoloso e diffuso, il “cutting”, ovvero tagliuzzarsi con qualunque oggetto appuntito capiti, taglierini, lamette, forbici, posate, aghi, chiodi, pezzi di ferro, di vetro o di ceramica. Sedi delle lesioni, braccia, polsi, mani, gambe, pancia, talvolta persino schiena.
Oltre ai tagli, la pratica può contemplare graffi, morsi, abrasioni, escoriazioni, recisioni, contusioni con ecchimosi o ematomi, o anche strapparsi i capelli o ingerire veleni o oggetti. Forme particolari di autolesionismo sono il “burning”: provocarsi bruciature o ustioni (più comune nei maschi), e il “branding”: marchiarsi con oggetti roventi (più comune come rituale di appartenenza). Il più delle volte le lesioni restano misconosciute perché la stragrande maggioranza degli adolescenti autolesionisti non ha bisogno di cure mediche e non si reca in ospedale. Di solito ragazzi le nascondono sotto abiti larghi e lunghi, spesso indossati anche se non consoni al periodo stagionale e al clima, o braccialetti, polsini, bandane. Secondo il Self Harm & Self Injury, il portale americano dedicato allo studio e all’informazione sull’autolesionismo, comportamenti di tipo autolesionistico sono presenti nel 42% dei giovani tra i 13 ed i 22 anni. La prevalenza è maggiore nel sesso femminile, l’età più colpita tra 11 e 18 anni con una concentrazione del 70% tra i 12 e i 14 anni.
La maggioranza dei giovani che si taglia lo fa emulando un amico o perché lo ha visto fare su web, social network e blog. Per lo più accade da soli, chiusi in bagno o in cameretta, ma capita anche che i ragazzi pratichino questo rito in gruppo con gli amici. Raramente ne parlano con chi hanno vicino, perché provano senso di vergogna e colpa, montando scuse e bugie per spiegare i segni evidenti. E’ più comune che si aprano su internet, soprattutto nelle chat segrete del deep web. Nella maggior parte dei casi il fenomeno si ripete per mesi, o anni. Non c’è una frequenza precisa, di solito le lesioni avvengono in risposta ad accadimenti che provocano un lancinante dolore interiore, un abbandono o una minaccia di abbandono reali o percepiti, un sentimento negativo di tristezza, insoddisfazione, delusione, rabbia, frustrazione, sofferenza, solitudine, un’ansia, inquietudine, agitazione mentale, tensione difficili da gestire, la presenza di immagini o ricordi dolorosi, un senso di fallimento e disgusto per sé stessi.
Per gli autolesionisti, tagliarsi serve per “far uscire dalla ferita il dolore che si ha dentro”, come “una pentola a pressione che possa sfiatare”. La condotta autolesionistica rappresenta una risposta psicopatologica che consente di spostare l’attenzione dal disagio emotivo, vissuto come intollerabile, sul dolore fisico. Si mira ad entrare in uno stato di torpore o insensibilità psichica e derealizzazione facendo passare la sofferenza dall’anima al corpo, dalla mente al fisico: un modo per scappare e dissociarsi, distrarre la mente dai sentimenti negativi e fermare il dolore emotivo.
È dunque una modalità di regolazione emozionale disfunzionale, utilizzata come strategia per gestire uno stato interno che fa troppo male, per regolare lo stress. Subito dopo essersi feriti, la sensazione provata è di sollievo, pace, liberazione, benessere, come di abbassamento dei livelli di compressione emotiva. A volte questo benessere può non essere solo psicologico, ma mediato dalle endorfine beta rilasciate dal cervello dopo una lesione fisica, in funzione di antidolorifico naturale, tanto è vero che alcuni autolesionisti dicono di non provare nessun dolore mentre si feriscono, o addirittura piacere. Tuttavia, si tratta di un beneficio transitorio e illusorio, che porta col tempo ad un circolo vizioso simile a quello della dipendenza, dove l’emozione positiva provata funge da incipit per il rifugio nel comportamento patologico alla successiva difficoltà.
Secondo “la regola delle 4 terribili O”, ha spiegato il dottor Giovanni Gabrielli al 1° Forum Internazionale dell’Infanzia, dell’Adolescenza e della Famiglia, Paidoss, svoltosi a Napoli a settembre 2014, gli adolescenti autolesionisti sperimentano quattro sentimenti distruttivi: “Odio tutto”, “Odio tutti”, “Odio me stesso/a”, “Odio tutto questo odio che ho verso di me”. Sono infatti comuni, nel profilo psicologico del giovane autolesionista, incomunicabilità e inadeguatezza nelle relazioni con gli altri, conflittualità con il proprio corpo e con la crescita, scarsa accettazione di se stesso e bassa autostima, senso di colpa nei confronti dell’incapacità di realizzare le aspettative dei genitori, fragilità e irritabilità. Fattori di rischio sono uno spiccato perfezionismo, una marcata impulsività, l’isolamento sociale e la presenza di una relazione genitore-figlio disfunzionale.
Nell’ultimo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV) l’autolesionismo è classificato tra i sintomi del disturbo di personalità borderline, anche se è stato proposto di includerlo come diagnosi distinta nella quinta edizione. Spesso coesistono altre problematiche psichiche quali depressione, disturbi d’ansia, dipendenza da sostanze di abuso, disturbo post traumatico da stress, schizofrenia, disturbi alimentari, dismorfofobia, sindrome di Münchhausen (persone che fingono una malattia per attirare attenzione su di sé), autismo.
Sovente autolesionismo si riscontra in vittime di bullismo o cyberbullismo o nelle persone sottoposte a violenze e abusi infantili o a traumi (es. morte prematura di un genitore, violenti litigi dei genitori). In adolescenti con orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale la frequenza degli atti autolesionistici è 6 volte superiore rispetto a quella negli adolescenti eterosessuali. L’indice di mortalità di questi pazienti è stimato attorno al 9-10%, anche se si tratta di morti non premeditate volontariamente e dunque non suicidarie, in quanto l’autolesionismo classico, definito non suicidario (ANS) va tenuto distinto nosologicamente dai casi di tentato suicidio.
Tuttavia, il rapporto tra suicidio e autolesionismo è piuttosto complesso poiché vi è un aumento del rischio di evoluzione verso comportamenti suicidari negli individui che praticano l’autolesionismo: il 40-60% dei suicidi ha manifestato comportamenti autolesionistici. L’approccio diagnostico suggerisce ai clinici di utilizzare con questi pazienti il modello SOARS (Contemporary Pediatrics 2016): indagare su pensieri suicidi (S); chiedere l’origine(O), ossia insorgenza, frequenza e sede dell’autolesionismo; domandare l’attenzione (A), cioè come l’adolescente si prenda cura poi della ferita; interrogarlo su quali siano le ragioni (R) per cui l’autolesionismo offre un aiuto; infine valutare lo stadio (S) cioè a che punto il giovane si trova nel suo percorso per cambiare e fermare il comportamento autolesionistico. Una domanda da porre sempre potrebbe essere: “Se le tue ferite potessero parlare, che cosa direbbero di te?”.
La terapia farmacologica con antidepressivi comporterebbe un aumento del rischio di suicidio nelle prime fasi dell’assunzione del farmaco, soprattutto nelle fasce di età più basse, benchè secondo recenti studi il beneficio ottenuto attraverso la somministrazione di antidepressivi inibitori selettivi del re-uptake della serotonina superi i rischi. Andrebbe sempre associata la terapia cognitivo-comportamentale. I genitori dovrebbero essere parte coinvolta del trattamento.
Per i genitori dei figli adolescenti la condotta autolesionistica rappresenta infatti un comportamento incomprensibile e angosciante. Grida la mamma di una “cutter” inglese raccontando la sua dolorosa esperienza sul Sunday Times: “Qualcosa nella nostra società è terribilmente, terribilmente sbagliato. Serviranno idee radicali, visionarie, innovative e coraggiose per alleggerire la pressione sociale sui nostri figli, per ridargli l’infanzia e la serenità”.
Per sensibilizzare a questo dramma, ogni 1 di marzo si svolge la giornata mondiale di consapevolezza sull’autolesionismo, il “Self-injury Awareness Day”, in cui si invitano le persone a indossare per l’occasione un fiocco arancione simbolo di solidarietà a chi soffre della patologia.
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