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Autolesionismo: farsi male per stare bene

Autore: dott. Carlo Alfaro | Pubblicato Giugno 2018 in Salute

A gennaio 2018 i media nazionali hanno riportato il caso di cinque ragazzini tra i 12 e i 14 anni di una scuola me­dia del cosentino, di cui quattro all’interno della stessa classe, protagonisti di autolesionismo: avrebbero usato lamet­te, vetri, lattine per prodursi ferite su braccia e gambe per poi inviarsele sui telefonini; sono stati intercettati da una loro do­cente, insospettita da alcune battute tra studenti e dalle ferite sulle braccia di alcune ragazze. Andando a ritroso nei mesi, a maggio 2017, la cronaca riportava di quattro casi di autolesio­nismo registrati all’ospedale Salesi di Ancona: nell’arco di un mese, questi ragazzini, tutti attorno ai 10 anni, si sono presen­tati al pronto soccorso con tagli sulle braccia o sulle cosce au­toinferti con lamette, mentre a giugno 2017 è stato segnalato il caso di una tredicenne in provincia di Siena con tagli sull’a­vambraccio sinistro e sul palmo di una mano. I casi che vengo­no alla ribalta della cronaca sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno adolescenziale pericoloso e diffuso, il “cutting”, ovvero tagliuzzarsi con qualunque oggetto appuntito ca­piti, taglierini, lamette, forbici, posate, aghi, chiodi, pezzi di ferro, di vetro o di ceramica. Sedi delle lesioni, braccia, polsi, mani, gambe, pancia, talvolta persino schiena.
Oltre ai tagli, la pratica può contemplare graffi, morsi, abra­sioni, escoriazioni, recisioni, contusioni con ecchimosi o ema­tomi, o anche strapparsi i capelli o ingerire veleni o oggetti. Forme particolari di autolesionismo sono il “burning”: provocarsi bruciature o ustioni (più comune nei maschi), e il “branding”: marchiarsi con oggetti roventi (più comune come rituale di appartenenza). Il più delle volte le lesioni re­stano misconosciute perché la stragrande maggioranza degli adolescenti autolesionisti non ha bisogno di cure mediche e non si reca in ospedale. Di solito ragazzi le nascondono sot­to abiti larghi e lunghi, spesso indossati anche se non consoni al periodo stagionale e al clima, o braccialetti, polsini, bandane. Secondo il Self Harm & Self Injury, il portale americano dedicato allo studio e all’informazione sull’autolesionismo, comporta­menti di tipo autolesionistico sono presenti nel 42% dei giovani tra i 13 ed i 22 anni. La prevalenza è maggiore nel sesso femminile, l’età più colpita tra 11 e 18 anni con una concentrazione del 70% tra i 12 e i 14 anni.
La maggioranza dei giovani che si taglia lo fa emulando un amico o perché lo ha visto fare su web, social network e blog. Per lo più accade da soli, chiusi in bagno o in cameretta, ma capita anche che i ragazzi pratichino questo rito in gruppo con gli amici. Raramente ne parlano con chi hanno vici­no, perché provano senso di vergogna e colpa, mon­tando scuse e bugie per spiegare i segni evidenti. E’ più comune che si aprano su internet, soprattutto nelle chat segrete del deep web. Nella maggior parte dei casi il fenomeno si ripete per mesi, o anni. Non c’è una frequenza precisa, di solito le lesioni avvengo­no in risposta ad accadimenti che provocano un lancinante dolore interiore, un abbandono o una minaccia di abbandono reali o percepiti, un sen­timento negativo di tristezza, insoddisfazione, delusione, rabbia, frustrazione, sofferenza, soli­tudine, un’ansia, inquietudine, agitazione menta­le, tensione difficili da gestire, la presenza di im­magini o ricordi dolorosi, un senso di fallimento e disgusto per sé stessi.
Per gli autolesionisti, tagliarsi serve per “far usci­re dalla ferita il dolore che si ha dentro”, come “una pentola a pressione che possa sfiatare”. La condotta autolesionistica rappresenta una risposta psicopato­logica che consente di spostare l’attenzione dal di­sagio emotivo, vissuto come intollerabile, sul dolore fisico. Si mira ad entrare in uno stato di torpore o insensibilità psichica e derealizzazione facendo passare la sofferenza dall’anima al corpo, dalla mente al fisico: un modo per scappare e dissociarsi, distrarre la mente dai sentimenti negativi e fermare il dolore emotivo.
È dunque una modalità di regolazione emoziona­le disfunzionale, utilizzata come strategia per gestire uno stato interno che fa troppo male, per regolare lo stress. Subito dopo essersi feriti, la sensazione provata è di sollievo, pace, liberazione, benesse­re, come di abbassamento dei livelli di compres­sione emotiva. A volte questo benessere può non essere solo psicologico, ma mediato dalle endorfine beta rilasciate dal cervello dopo una lesione fisica, in funzione di antidolorifico naturale, tanto è vero che alcuni autolesionisti dicono di non provare nes­sun dolore mentre si feriscono, o addirittura piacere. Tuttavia, si tratta di un beneficio transitorio e illu­sorio, che porta col tempo ad un circolo vizioso simile a quello della dipendenza, dove l’emozione positiva provata funge da incipit per il rifugio nel comportamento patologico alla successiva difficoltà.
Secondo “la regola delle 4 terribili O”, ha spiegato il dottor Giovanni Gabrielli al 1° Forum In­ternazionale dell’Infanzia, dell’Adolescenza e della Famiglia, Paidoss, svoltosi a Napoli a settembre 2014, gli adolescenti autolesionisti sperimentano quattro sentimenti distruttivi: “Odio tutto”, “Odio tutti”, “Odio me stesso/a”, “Odio tutto questo odio che ho verso di me”. Sono infatti comuni, nel profilo psicologico del giovane autolesionista, incomunicabilità e inadegua­tezza nelle relazioni con gli altri, conflittualità con il proprio corpo e con la crescita, scarsa accettazione di se stesso e bassa autostima, senso di colpa nei con­fronti dell’incapacità di realizzare le aspettative dei genitori, fragilità e irritabilità. Fattori di rischio sono uno spiccato perfezionismo, una marcata impulsivi­tà, l’isolamento sociale e la presenza di una relazione genitore-figlio disfunzionale.
Nell’ultimo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV) l’autolesionismo è classificato tra i sintomi del disturbo di personalità borderline, anche se è stato proposto di includerlo come diagnosi distinta nella quinta edizione. Spesso coesistono altre problematiche psichiche quali de­pressione, disturbi d’ansia, dipendenza da sostanze di abuso, disturbo post traumatico da stress, schizo­frenia, disturbi alimentari, dismorfofobia, sindrome di Münchhausen (persone che fingono una malattia per attirare attenzione su di sé), autismo.
Sovente autolesionismo si riscontra in vitti­me di bullismo o cyberbullismo o nelle persone sottoposte a violenze e abusi infantili o a traumi (es. morte prematura di un genitore, violenti litigi dei genitori). In adolescenti con orientamento ses­suale diverso da quello eterosessuale la frequenza degli atti autolesionistici è 6 volte superiore rispet­to a quella negli adolescenti eterosessuali. L’indice di mortalità di questi pazienti è stimato attorno al 9-10%, anche se si tratta di morti non premeditate volontariamente e dunque non suicidarie, in quanto l’autolesionismo classico, definito non suicidario (ANS) va tenuto distinto nosologica­mente dai casi di tentato suicidio.
Tuttavia, il rapporto tra suicidio e autolesionismo è piuttosto com­plesso poiché vi è un aumento del rischio di evoluzione verso comporta­menti suicidari negli individui che praticano l’autolesionismo: il 40-60% dei suicidi ha manifestato comportamenti autolesionistici. L’ap­proccio diagnostico suggerisce ai clinici di utilizzare con questi pazienti il modello SOARS (Contemporary Pediatrics 2016): indagare su pensieri suicidi (S); chiedere l’origine(O), ossia insorgenza, frequenza e sede dell’autolesionismo; domandare l’attenzione (A), cioè come l’adole­scente si prenda cura poi della ferita; interrogarlo su quali siano le ragio­ni (R) per cui l’autolesionismo offre un aiuto; infine valutare lo stadio (S) cioè a che punto il giovane si trova nel suo percorso per cambiare e fermare il comportamento autolesionistico. Una domanda da por­re sempre potrebbe essere: “Se le tue ferite potessero parlare, che cosa direbbero di te?”.
La terapia farmacologica con antidepressivi comporterebbe un aumento del rischio di suicidio nelle prime fasi dell’assun­zione del farmaco, soprattutto nelle fasce di età più basse, benchè secondo recenti studi il beneficio ottenuto attraver­so la somministrazione di antidepressivi inibitori selettivi del re-uptake della serotonina superi i rischi. Andrebbe sempre associata la terapia cognitivo-comporta­mentale. I genitori dovrebbero essere parte coinvol­ta del trattamento.
Per i genitori dei figli adolescenti la condotta autole­sionistica rappresenta infatti un comportamento incom­prensibile e angosciante. Grida la mamma di una “cutter” inglese raccontando la sua dolorosa esperienza sul Sunday Times: “Qualcosa nella nostra società è terribilmente, terribil­mente sbagliato. Serviranno idee radicali, visionarie, innovati­ve e coraggiose per alleggerire la pressione sociale sui nostri figli, per ridargli l’infanzia e la serenità”.
Per sensibilizzare a questo dramma, ogni 1 di marzo si svolge la giornata mondiale di consapevolezza sull’autole­sionismo, il “Self-injury Awareness Day”, in cui si invitano le persone a indossare per l’occasione un fiocco arancione simbolo di solidarietà a chi soffre della patologia.