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Nascere in Italia

Autore: a cura del dott. Carlo Alfaro | Pubblicato Maggio 2022 in Salute

I DATI ISTAT- Secondo il rapporto demografico sull’anno 2021 pubblicato dall’Istat ad aprile 2022, la natalità in Italia è al minimo storico: nel 2021 sono nati solo 399 mila bambini, pari a 7 neonati per ogni 1.000 abitanti. Si tratta del numero più basso dei nati in un anno dall’Unità d’Italia. La diminuzione è dell’ordine dell’1,3% rispetto al 2020 e quasi del 31% a confronto col 2008. Pensiamo che negli anni Sessanta nascevano oltre 1 milione di bambini all’anno, nel 2008 erano 576 mila, 420 mila nel 2019.
Questo calo di natalità nel 2021 si è verificato a fronte invece di una mortalità alta (sebbene minore del 2020): 709 mila morti in 1 anno, pari a 12 decessi per ogni 1.000 abitanti. Dunque, il saldo naturale - ossia la “sostituzione naturale” tra nati e morti - è fortemente in negativo: queste dinamiche demografiche non consentono il fisiologico ricambio della popolazione.
La popolazione residente in Italia è attualmente ridotta a 58 milioni e 983 mila persone. Il numero di abitanti è in riduzione costante dal 2014, quando risultava pari a 60,3 milioni di residenti. L’Italia è destinata di questo passo a veder dimezzata la sua popolazione entro 80 anni. Aumentano anche le diseguaglianze territoriali, con crisi demografica e mortalità maggiori nel Mezzogiorno. Le Regioni che più delle altre hanno un saldo naturale fortemente negativo sono il Molise e la Calabria, mentre solo la Provincia autonoma di Bolzano mostra un saldo positivo.
EFFETTI DELLA PANDEMIA - La pandemia ha una forte responsabilità in questo inverno demografico, sia per la diminuzione della natalità (non c’è stato il “Corona baby boom” auspicato dai mass media come conseguenza dei lockdown, ma l’esatto contrario, per il rinvio delle gravidanze a causa dell’incertezza socio-economica - sanitaria e in parte anche per l’interruzione dovuta alla crisi sanitaria dei programmi di procreazione medicalmente assistita) sia per la diminuzione dell’aspettativa di vita causa il drammatico eccesso di mortalità (è scesa a 82 anni la speranza di vita alla nascita, ben 1,2 anni sotto il livello del 2019). Nei due anni di pandemia il calo di popolazione è stato di quasi 616 mila unità. In base al secondo rapporto “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizioni delle nuove generazioni” del Gruppo di esperti “Demografia e Covid-19” istituito nell’aprile 2020 dal Minisero per le politiche della Famiglia, nel 2020 il saldo naturale è stato di -335 mila, il peggiore nel Secondo dopoguerra. Come se fosse sparita in un solo anno una intera grande città italiana.
UN PROBLEMA CRONICO - In realtà, la bassa fecondità in Italia perdura ormai da 30 anni. E’ già dal 1993 che siamo un Paese che ha più morti rispetto alle nascite. Il calo progressivo delle nascite ha portato alla contrazione e all’invecchiamento della popolazione, con gli elevati costi pubblici che ne derivano. L’indice di vecchiaia (rapporto tra la popolazione di oltre 65 anni e quella con meno di 15 anni) è notevolmente aumentato nel tempo, passando da 46,1 nel 1971 a 148,7 nel 2011 fino a 179,3 nel 2019. L’Italia è una bomba a orologeria demografica: la società non riesce più a sostenersi e ad autoperpetuarsi, la forza lavoro invecchia, l’economia resta cronicamente stagnante. Il fatto di essere uno dei Paesi più vecchi del mondo (secondo solo al Giappone) crea infatti un “debito demografico” che incide pesantemente sulle prospettive di crescita delle generazioni future. Di questo passo il welfare diventerà insostenibile.
I FATTORI RESPONSABILI - Due sono i fattori - chiave della cosiddetta “trappola demografica”: il deficit di dimensioni della popolazione femminile in età feconda e l’età anagrafica. Il primo fattore riguarda il numero limitato di donne in età fertile, quale conseguenza del fatto che da molti anni nascono pochi figli, solo quelli attentamente voluti e programmati. In Italia, come in tutte le società moderne, la contraccezione rappresenta la condizione comune di base, che viene interrotta per consentire una nascita desiderata. Mentre però all’inizio del 2000 la criticità riguardava soprattutto il passaggio dal primo al secondo figlio, dal 2008 in poi le giovani coppie hanno difficoltà anche a generare il primo figlio. Il numero medio di figli per donna si attesta nel 2021 a 1,25, uno dei valori più bassi in Europa (era 1,46 nel 2010, poi ha iniziato inesorabilmente a decrescere anno per anno). Meno bambini nascono, minore sarà il numero di futuri potenziali genitori: un pericoloso circolo vizioso che crea una spirale discendente, perché da meno madri non potranno che nascere meno figli. Le generazioni dalla fine degli anni ’70 scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto “baby-bust”, ovvero la fase di forte calo della fecondità dopo il baby-boom, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Per spezzare la spirale di decrescita bisognerebbe arrivare alla soglia di 2,1 figli per donna, che permette la sostituzione delle generazioni, ma essendo poche numericamente le donne in età fertile è tecnicamente difficile. Nel 2020 le donne tra i 15 e i 49 anni (intervallo che convenzionalmente identifica l’età feconda) erano 1,3 milioni in meno rispetto al 2008. Il secondo fattore della trappola demografica è che sale sempre più l’età media delle donne al primo figlio: nel 2021 è arrivata a 32,4 anni (oltre 3 anni in più rispetto al 1995). Fanno più figli in Italia le donne tra i 35 e i 39 anni che tra i 25 e i 29 anni. Il fatto di rinviare nel tempo la scelta di avere figli comporta che le possibilità di averne siano ridotte rispetto ai desideri delle coppie. Paradossalmente, la scelta consapevole e deliberata di non avere figli è poco frequente, meno del 5% delle donne in età fertile senza figli, mentre è comune la decisione di rinviare nel tempo la realizzazione dei progetti familiari, fino a che poi sarà troppo tardi. Le cause della crescente posticipazione della maternità vanno ricercate nelle difficoltà che i giovani in Italia trovano a realizzare in pieno i propri obiettivi di vita coniugandoli con i percorsi formativi e le aspettative professionali: il protrarsi dei tempi della formazione, gli ostacoli nell’ingresso nel mondo del lavoro, la profonda instabilità e precarietà del lavoro, le difficoltà di accesso alle abitazioni, la prolungata mancanza di autonomia dalla famiglia di origine. In particolare le persistenti difficoltà di conciliazione famiglia-lavoro rappresentano un freno sia per l’occupazione femminile che per la fecondità. Gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile incidono fortemente sulla fecondità, per questo la fecondità è maggiore al Nord. Secondo i dati dell’Ispettorato del Lavoro, oltre il 70% delle donne che lascia volontariamente il lavoro lo fa a causa della difficoltà a conciliarlo con la maternità e la cura dei figli. L’Italia figura tra gli ultimi Paesi europei per numero di donne occupate: solo il 48,9% delle donne in età fertile lavora, contro una media del 62,4% dell’Unione europea. La politica dovrebbe supportare il lavoro delle donne. Tutti i Paesi che hanno attivato politiche del lavoro, fiscali e del welfare a favore del lavoro delle donne garantendo loro sicurezza, flessibilità, incentivi economici, servizi e assistenza a supporto della gravidanza e maternità, come Francia, Germania e Paesi Scandinavi, hanno aumentato la fecondità. Poi va considerato un terzo fattore, la riduzione della fertilità: soprattutto quella maschile (responsabile del 30% dei casi di infertilità di coppia) nei giovani è in progressivo aumento (è raddoppiata negli ultimi 30 anni e oggi riguarda circa 2 milioni di Italiani, causa alcol, fumo, obesità, sedentarietà, interferenti endocrini, riscaldamento globale).
IL CONTRIBUTO DEGLI STRANIERI - I flussi migratori dall’estero, pur tornati ampiamente nel 2021 dopo la forte contrazione del 2020 per la pandemia, sono del tutto insufficienti a controbilanciare la perdita di popolazione, a differenza di quanto è avvenuto a partire dagli anni 2000 e fino all’incirca al 2012, quando l’apporto dell’immigrazione, con l’ingresso di popolazione giovane, ha parzialmente contenuto gli effetti del baby-bust. Le grandi regolarizzazioni degli stranieri del 2002 hanno dato origine, negli anni 2003-2004, alla concessione di circa 650 mila permessi di soggiorno, in gran parte tradotti in un boom di iscrizioni in anagrafe (oltre 1 milione 100 mila). Si trattava di una popolazione giovane e fertile. Nel 2003, ad esempio, la fecondità delle straniere era pari a 2,52 figli per donna. Dal 2012 al 2020 è progressivamente diminuito il contributo alla natalità dei minori stranieri, sia per la diminuzione dei flussi femminili in entrata nel nostro Paese sia per il progressivo invecchiamento della popolazione straniera. L’incidenza delle nascite da genitori stranieri è da sempre più elevata nelle Regioni del Nord, dove la presenza straniera è più rappresentata e radicata. Sulla diminuzione della popolazione giovanile italiana hanno un effetto dal canto inverso anche le emigrazioni dei giovani italiani verso l’estero.
SEGNALI DI RIPRESA - Piccoli segnali di ripresa tuttavia ci sono, e provengono dalla nuzialità. Nel 2021 si è quasi tornati alla normalità grazie a 179 mila celebrazioni di matrimonio (3 per 1.000 abitanti), quando nel 2020 se ne riscontrarono appena 97 mila (1,6 per 1.000), mentre nel 2019 furono 184 mila. Dato il legame tra nuzialità e intenzioni riproduttive, considerato che tutt’oggi nel Paese almeno i due terzi delle nascite hanno origine all’interno del nucleo coniugale, la ripresa della nuzialità del 2021 potrebbe sottintendere un parziale recupero di nascite nel corso del 2022. In realtà, primi segnali per quanto timidi di ripresa si ravvisano già nell’ultima parte del 2021. A novembre e dicembre si sono registrate circa 69 mila nascite, il 10% in più di quanto rilevato nel medesimo periodo del 2020, riportandosi al valore osservato nel 2019.
E’ necessario un impegno collettivo a favore della genitorialità, perché fare figli non deve continuare ad essere considerata una scelta privata, ma un investimento da sostenere, sia dal punto di vista economico che sociale, nell’interesse della collettività, quale bene comune del Paese. Non possiamo rischiare di perdere quello che è il capitale umano più importante di un Paese: i bambini. I bambini sono la speranza: senza bambini non c’è più futuro. E “quando non c’è più speranza nel futuro, il presente si colora di una spaventosa amarezza”, scrive Émile Zola.