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La transizione dalle cure del pediatra al medico dell’adulto

Autore: dott. Carlo Alfaro | Pubblicato Ottobre 2017 in Salute

Per “periodo di transizione” si intende quella fase della vita che va dalla comparsa dei primi segni di sviluppo pube­rale al raggiungimento del pieno e completo sviluppo fi­sico e psicologico tipico dell’età adulta, e corrisponde all’età dell’adolescenza. Sebbene dal punto di vista cronologico l’a­dolescenza non abbia limiti rigidamente definibili, usualmente l’inizio viene identificato intorno ai 10-11 anni, e il suo termine collocato ai 18 anni di età. Tuttavia, tenendo conto sia della possibilità di un inizio più anticipato dello sviluppo puberale, sia di un più ritardato raggiungimento di una piena matura­zione psico-fisica, i limiti possono essere estesi dagli 8-9 anni, se pubertà precoce/anticipata, fino alla terza decade di vita, quando condizioni mediche (patologie/disordini cronici), neu­ro-psicologiche o sociali ne prolunghino il fisiologico decorso: per esempio, per i soggetti con deficit di GH idiopatico la fine del periodo di transizione si colloca intorno all’età di 25 anni. A questa fase biologica e psichica corrispondono anche dei cam­biamenti nell’assistenza sanitaria.

In Italia, a livello territoriale, il pediatra di famiglia (PdF), secondo l’ultimo Accordo Collettivo Nazio­nale, ha l’esclusività dell’assistenza fino al 6° anno, la possibilità facoltativa di seguire i propri assistiti fino al 14° anno, con l’ul­teriore estensione (ma di non unifor­me attuazione, a seconda dei diversi Accordi Regionali) fino al 16° anno per casi particolari e/o per patologia cronica. A livello ospedaliero, nell’agosto 1987 il Consiglio Superiore di Sanità riconosceva l’opportunità del ricovero dell’adolescente in strutture pedia­triche: tuttavia, solo il 12.2% dei soggetti oltre i 15 anni trova di fatto assistenza in Area pediatrica, mentre il restante 87.8% è ricoverato in reparti per adulti.

Indipendentemente dall’età a cui questo avviene, l’adolescente deve ad un certo punto passare dalle cure pediatriche a quelle internisti­che. La Società Americana di Medicina dell’Ado­lescenza ha definito la fase di transizione delle cure come “il passaggio, programmato e finaliz­zato, di adolescenti da un sistema di cure cen­trato sul bambino ad uno orientato sull’adulto”. La transizione dalle cure pediatriche a quelle del medico dell’adulto rappresenta un passaggio assistenziale delicato ed importante per l’ado­lescente, che dovrebbe essere incentrato sul paziente con una grande attenzione alle sue esigenze individuali, ed avvenire con continuità, coordinazione, flessibilità, sensibilità, secondo linee guida prestabilite, ed è particolarmente problematico per gli adolescenti affetti da ma­lattia cronica, che sono sempre di più grazie alla maggiore sopravvivenza, in virtù dell’evoluzione delle conoscenze mediche: si stima che circa il 15% degli adolescenti tra 15 e 17 anni residenti in Italia soffrano di almeno una malattia cronica.
Esistono numerose problematiche, correlate a tutti i protagonisti della transizione, che posso­no ostacolare e complicare questo processo; tra queste, sono particolarmente frequenti:

  • da parte del team pediatrico, il legame af­fettivo con il paziente, la non completa fi­ducia o scarsa comunicazione e conoscen­za delle strutture internistiche, l’interesse scientifico nel follow-up del paziente; 
  • da parte dell’adolescente o giovane adulto, la paura di affrontare un ambiente scono­sciuto in cui non avere un referente noto, e l’assenza di un ambiente dedicato alla sua età; il vissuto di malattia cronica comporta infatti spesso lo sviluppo di meccanismi di attaccamento allo staff del centro (medici, infermieri e tutti gli operatori sanitari) che rende doloroso il distacco dalla struttura pediatrica cui si è stati legati per anni; 
  • da parte della famiglia, la sensazione di non sentirsi più un interlocutore privilegiato per il medico, che si riferisce ora direttamente al paziente; 
  • da parte del medico dell’adulto, la remora di una insufficiente preparazione culturale nell’affrontare e nel gestire alcune patolo­gie croniche, congenite o ad insorgenza in età pediatrica, con cui non ha dimestichez­za.

Di fatto, esistono differenze sostanziali tra le cure pediatriche e quelle dell’adulto, cui il giova­ne deve adattarsi: le cure pediatriche sono cen­trate sul bambino e sulla sua famiglia, con una particolare attenzione alla triade genitori-bam­bino, mentre le cure indirizzate all’adulto sono più centrate sulla malattia, sul suo trattamento e sulle complicanze; inoltre il soggetto, piutto­sto che la famiglia, è il vero interlocutore.

Un corretto, fisiologico e indolore processo di transizione è indispensabile per garantire la realizzazione di un percorso assistenziale che consenta l’adeguata tutela della salute psicofisi­ca del paziente, oltre ad attenuare l’impatto psi­cologico del cambiamento sul giovane paziente e a permettergli di gestire in modo consapevole le problematiche inerenti la propria salute.
Rimanere troppo a lungo in una organizza­zione pediatrica (la cosiddetta “pediatrizzazio­ne” cronica del paziente) può contribuire a ritar­dare lo sviluppo di uno spirito di indipendenza (già favorito dai meccanismi protettivi della fa­miglia) e può privare pazienti con specifiche ma­lattie delle cure appropriate alla loro età. I medici dell’adulto sono infatti più competenti di alcune condizioni e complicanze rare in età pediatrica e dispongono di un armamentario farmacologico e terapeutico più vario.

Il periodo della transizione ai servizi sanitari dell’adulto, se non condotto in maniera adegua­ta, può associarsi a discontinuità ed interruzioni traumatiche delle cure, con aumento del rischio di complicanze e scompenso della malattia di base, esempio, nel diabete. La efficace transizio­ne è dunque importante per garantire la salute a lungo termine e per scongiurare la possibilità di abbandono delle cure, che in adolescenza raggiunge un livello critico se si considera che secondo alcuni studi il 50-55% degli adolescenti con malattie croniche, quindi la metà e oltre, ab­bandona le terapie. Il complesso processo di transizione richiede la for­mulazione di uno specifico percorso diagnostico-tera­peutico strutturato, condiviso tra il pediatra e il medico dell’adulto, che si basi su un programma formalizzato e progressivo. La prima parte di questo progetto compete al pediatra, con la preparazione del paziente e della fa­miglia: già nella prima parte dell’adolescenza, il pediatra deve educare il ragazzo ad essere consapevole e respon­sabile della propria salute, e, nel caso di patologia cro­nica, comprendere la natura della malattia, il razionale del trattamento, la causa dei sintomi e a riconoscere un eventuale peggioramento e le misure per contrastarlo, oltre che le modalità per chiedere l’aiuto del personale sanitario e per orientarsi nel sistema sanitario.

Un periodo di 2-4 anni dovrebbe permettere al pediatra un lavoro educativo del paziente ed una va­lutazione progressiva delle sue conoscenze della malattia, dei segni precoci di un eventuale scom­penso e complicanze, della sua capacità di affron­tare da solo un eventuale trattamento a domicilio, di contattare l’equipe curante in caso di necessità, e di organizzarsi autonomamente le visite in ospedale e gli esami ambulatoriali.

È importante il coinvolgimento dei genitori, che dovranno essere aperti ad accogliere le istanze di auto­nomia ed emancipazione dell’adolescente, ma restare sempre informati del suo stato di salute, e aver modo di pianificare il passaggio di consegne al nuovo curante con un’idea precisa di ciò che succederà dopo, rassicurati di opportunità ed esito positivo del passaggio alle cure allo staff dell’adulto. Nella fase del trasferimento vero e proprio, è necessaria una reciproca conoscenza e un passaggio coordi­nato di consegne tra le figure sanitarie del bambi­no e dell’adulto. Il pediatra consegna all’internista l’anamnesi completa del paziente, con i percorsi diagnostici e le terapie praticate, e discute col collega che lo prende il programma delle cure future, ai fini di un’impostazione comune del programma assistenzia­le e terapeutico, che garantisca continuità dell’assi­stenza. Sarebbe auspicabile un modello di transizione in cui i ragazzi possano essere seguiti per il tempo ne­cessario in uno spazio ad hoc co-gestito da pediatri e medici dell’adulto specificamente formati, una sorta di “cliniche dell’adolescente”.