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Come si cura il Covid a domicilio?

Autore: a cura del dott. Carlo Alfaro | Pubblicato Aprile 2021 in Salute

Al momento non esistono farmaci specifici che abbiano dimostrato, se iniziati precocemente, di bloccare l’infezione da Sars-CoV-2, prevenire la comparsa di sintomi, modificare l’evoluzione della malattia, migliorare il decorso clinico evitando la polmonite o altre complicazioni.
All’inizio della pandemia, in mancanza di farmaci di efficacia dimostrata, le Agenzie del farmaco internazionali e nazionali hanno avviato sperimentazioni cliniche su molecole già in commercio per altre malattie (“riposizionate” per il Covid-19), hanno favorito programmi di uso “compassionevole” (che vuol dire uso di un farmaco in fase di sperimentazione non ancora approvato dalle autorità sanitarie, al di fuori degli studi clinici), consentito l’uso “off label” (cioè con indicazioni diverse da quelle per cui il medicinale è stato approvato). Successivamente le sperimentazioni cliniche messe in atto hanno escluso l’efficacia di molti di essi e selezionato un numero limitato di farmaci.
L’Oms pubblica regolarmente le linee guida più aggiornate sul trattamento del Covid-19. In base ai dati raccolti dall’International Clinical Trials Registry Platform (ICTRP), il registro internazionale degli studi clinici attivo presso l’Oms, sono attualmente in corso 2.526 studi randomizzati controllati nel mondo per verificare l’efficacia contro il Covid-19 di farmaci già esistenti o di nuove molecole. Di questi, 432 riguardano interventi di prevenzione, 2.034 trattamenti e 60 interventi post-trattamento.
In Italia l’Aifa, Agenzia Italiana del Farmaco, alla data del 10 febbraio 2021, ha approvato 60 sperimentazioni. Per una gestione univoca dei trial sui farmaci, l’Oms ha organizzato un grande studio internazionale, denominato SOLIDARITY. Un altro studio importante è il RECOVERY (Randomised Evaluation of COVid-19 thERapY), disegnato dall’Università di Oxford per valutare l’efficacia di diversi farmaci testati nel Regno Unito.
Basandosi sulle evidenze emerse dagli studi clinici e delle indicazioni della letteratura scientifica, il Ministero della Salute ha emanato una circolare sulla gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2, che l’Aifa ha sintetizzato in linee guida. Sostanzialmente, l’approccio domiciliare si basa su vigile attesa, trattamenti sintomatici (es. paracetamolo e anti-infiammatori non steroidei per febbre e dolori), idratazione e nutrizione appropriate, senza modificare terapie croniche in atto (es. terapie antiipertensive) e senza utilizzare supplementi vitaminici o integratori alimentari. Ma queste posizioni dividono aspramente i Medici, soprattutto riguardo le restrizioni sull’uso nei pazienti seguiti a domicilio nelle prime fasi della malattia di idrossiclorochina, cortisone, eparina, azitromicina.
Idrossiclorochina: farmaco antimalarico utilizzato nella terapia dell’artrite reumatoide e del lupus eritematoso sistemico, nella prima ondata della pandemia è stato considerato rimedio di prima linea contro il Covid-19 grazie alle sue proprietà anti-virali e immuno-modulanti. Tuttavia, oltre 100 studi condotti in tutto il mondo hanno dato risultati non univoci, mettendone fortemente in dubbio il rapporto rischi/benefici, al punto di indurre le autorità regolatorie dei farmaci ad eliminarlo dalle proprie linee guida. Una posizione che si è scontrata col punto di vista di molti sanitari, soprattutto quanti lavorano sul territorio, che vantano di aver sperimentato benefici concreti dall’utilizzo del farmaco. Anche la storia degli studi clinici sul farmaco è piena di colpi di scena. Il dibattito scientifico iniziò ad infiammarsi quando l’autorevole rivista The Lancet pubblicò uno studio su un campione di 96.000 pazienti Covid ricoverati in ospedale, a maggio 2020, in cui si concludeva che l’idrossiclorochina aumentava la mortalità. In seguito a ciò, l’Oms decise il 25 maggio di sospendere i trial sul farmaco previsti dal programma di sperimentazione Solidarity. Anche l’Aifa, il 26 maggio, si allineò con l’Oms, sospendendo l’uso dell’idrossiclorochina al di fuori dei 5 studi clinici autorizzati. Circa 150 medici firmarono una lettera aperta alla rivista mettendo in discussione le conclusioni dell’articolo. Il 2 giugno, il colpo di scena: The Lancet ha ritirato la pubblicazione dello studio, scusandosi con i lettori, causa il fatto che gli autori avevano ritrattato lo studio, non potendo garantire la veridicità dei dati, protetti dalla privacy dall’agenzia che li aveva forniti. Il 3 giugno l’Oms decise quindi di riprendere gli studi all’interno del programma Solidarity. Tuttavia, i dati emersi successivamente dagli studi randomizzati, controllati e a doppio cieco Recovery e Solidarity, con mancanza di efficacia dell’idrossiclorochina e anzi decorso peggiore nel gruppo di trattamento, hanno portato al ritiro dell’uso off label dell’idrossiclorochina, prima in America e poi anche in Europa. Uno studio uscito poi su Clinical Microgiology and Infection ha fortemente messo in discussione lo studio Recovery, sostenendo che le dosi di idrossiclorochina somministrate ai pazienti Covid-19 erano troppo elevate e quindi potenzialmente tossiche. Infatti studi osservazionali su grandi numeri pubblicati in Italia, Belgio e Arabia Saudita, che hanno dimostrato che il farmaco riduce il rischio di mortalità, sono stati fatti con dosi basse-moderate. Ma questi studi hanno il limite di non essere randomizzati, cioè hanno meno potenza statistica, mentre i pochi studi randomizzati finora condotti non hanno mostrato alcun beneficio del farmaco. Per esempio, un’ampia revisione sistematica condotta dall’Agency for Healthcare Research and Quality (AHRQ) statunitense (4 studi clinici controllati e randomizzati, 10 studi di coorte e 9 serie di casi) conclude che non è dimostrabile efficacia terapeutica. Una revisione Cochrane (Cochrane Database Syst Rev. 2021) su 14 studi nel mondo non ha trovato benefici né come terapia né come prevenzione, ma solo aumento degli effetti indesiderati. L’Oms ha affermato in un articolo sul British Medical Journal che con evidenze ad alto livello di certezza emerse da 6 studi randomizzati controllati che hanno coinvolto oltre 6mila persone si può escludere che l’idrossiclorochina abbia alcun effetto preventivo sull’infezione da Covid-19.
Il profilo di rischio è un altro aspetto che preoccupa. Uno studio clinico randomizzato in doppio cieco in Brasile sull’uso di clorochina ad alte dosi nel Covid-19, è stato sospeso per eccesso di effetti collaterali cardiovascolari, anche gravi (aumento della mortalità del 17%). Lo studio ha il limite di aver utilizzato clorochina e non la più tollerata idrossiclorochina, dosi eccessive e in fase avanzata della malattia. L’EMA, Agenzia europea del farmaco, sottolinea come in diversi studi osservazionali sul Covid-19 clorochina e idrossiclorochina hanno riportato problemi al cuore, tra cui aritmie, prolungamento QT (rischio aumentato dall’assunzione con macrolide) e arresto cardiaco, oltre a disturbi neuropsichiatrici e convulsioni. Altri effetti collaterali noti del farmaco sono: ipoglicemia, emolisi (in caso di carenza di G6PD, il favismo), disturbi visivi (opacamento corneale, cecità ai colori reversibile), sintomi gastrointestinali (dolori, nausea e vomito), disturbi elettrolitici, insufficienza epatica o renale. Se idrossiclorochina viene somministrata in combinazione con l’azitromicina, il rischio cardiovascolare aumenta, in particolare la torsione di punta che può portare all’arresto cardiaco. Una metanalisi francese con revisione sistematica della letteratura che ha analizzato i risultati di 29 studi (tra randomizzati e osservazionali) ha concluso che l’idrossiclorochina non è efficace nel ridurre la mortalità e che anzi può addirittura incrementarla se associata all’antibiotico azitromicina. Anche uno studio retrospettivo su poco più di 1.400 pazienti ricoverati in 25 ospedali della città metropolitana di New York esclude che il trattamento con idrossiclorochina, da sola o in associazione con azitromicina, sia in grado di ridurre la mortalità rispetto al non trattamento e segnala un aumento del rischio di arresto cardiaco. Alla luce delle evidenze che si sono progressivamente accumulate, Aifa conferma che la completa mancanza di efficacia a fronte di aumento di eventi avversi ne sconsiglia l’uso sia a domicilio che in ospedale, né si ritiene utile o opportuno autorizzare nuovi studi clinici.
In risposta a ciò, un gruppo di medici di base italiani si è rivolto ai Tribunali amministrativi perché venissero modificate schede e linee guida Aifa, per poter continuare a utilizzare l’idrossiclorochina nelle fasi iniziali della malattia su pazienti non ospedalizzati. Il Consiglio di Stato, con ordinanza dell’11 dicembre 2020, ha accolto il ricorso in sede cautelare (cioè provvisoria), sospendendo la nota del 22 luglio 2020 di Aifa che vietava la prescrizione off label dell’idrossiclorochina e consentendone così la prescrizione, sotto precisa responsabilità e dietro stretto controllo del medico prescrivente. “Si tratta”, specifica l’Ordinanza, “di riconoscere al medico tutta l’autonomia decisionale e la responsabilità di valutare il singolo caso”. Successivamente, il Tar del Lazio, sede di Roma, il 4 marzo 2021, sempre in sede cautelare, ha accolto il ricorso di annullamento della nota Aifa del 9 dicembre 2020 secondo cui nei primi giorni di malattia è prevista unicamente una “vigilante attesa”, e ha affermato che i medici di base hanno il pieno potere di prescrivere i farmaci che ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza. In seguito ai due provvedimenti cautelari, la Regione Piemonte ha di recente modificato i protocolli per le terapie domiciliari del Covid-19, ufficializzando l’utilizzo dell’idrossiclorochina nella fase precoce della malattia.
Corticosteroidi: rappresentano al momento l’unico trattamento farmacologico che ha dimostrato un beneficio in termini di riduzione della mortalità nel Covid-19. L’Oms ha pubblicato una meta-analisi di 7 studi controllati e randomizzati condotti in tutto il mondo sull’utilizzo di 3 farmaci steroidei - desametasone, idrocortisone e metilprednisolone - nella cura dei pazienti Covid critici, dalla quale è emerso che la loro somministrazione ha ridotto di circa il 20% la mortalità a 28 giorni rispetto a cura standard o placebo. Anche nel trial nazionale britannico Recovery condotto in 176 ospedali, desametasone 6 mg al giorno per 10 giorni è risultato efficace nel ridurre la mortalità dei pazienti con malattia moderata-grave versus lo standard di cura. L’effetto era più evidente nei pazienti critici, mentre era poco significativo nei pazienti con malattia lieve o senza insufficienza respiratoria. Sulla base delle evidenze scientifiche, la maggior parte delle linee guide internazionali raccomanda l’utilizzo di corticosteroidi sistemici in pazienti Covid in condizioni severe e critiche con una terapia di 7-10 giorni, mentre ne escludono l’utilizzo su pazienti non critici/non soggetti a ventilazione. L’EMA ha approvato l’impiego del desametasone per il trattamento di pazienti affetti da Covid-19 adulti e adolescenti (dai 12 anni di età e con un peso di almeno 40 kg) che necessitano di supplementazione di ossigeno (sia ossigenoterapia standard sia in ventilazione meccanica). Aifa indica nelle proprie linee guida che l’uso dei corticosteroidi è raccomandato nei soggetti ospedalizzati con malattia Covid-19 grave che necessitano di ossigeno (saturazione dell’ossigeno sotto il 92%), in presenza o meno di ventilazione meccanica (invasiva o non invasiva). Anche il Ministero raccomanda che il cortisone può essere considerato solo per i pazienti il cui quadro clinico non migliora entro le 72 ore dall’insorgenza dei sintomi e nei quali si rilevi un peggioramento dei valori di ossigenazione del sangue rilevati tramite il saturimetro.
Non è raccomandabile viceversa l’utilizzo dello steroide nel paziente a domicilio sintomatico o paucisintomatico che non ha bisogno di ossigeno. C’è infatti il timore che nelle prime fasi dell’infezione l’uso del cortisone possa aumentare la carica virale. Non vanno inoltre trascurati i noti rischi della terapia steroidea: alterazione del metabolismo osseo, iperglicemia, disturbi elettrolitici (ipernatriemia e ipokaliemia), insufficienza corticosurrenale. Gli infettivologi del Policlinico Sant’Orsola di Bologna al riguardo in una lettera inviata all’Ordine dei medici hanno sottolineato come stessero arrivando sempre più pazienti, anche giovani, con una severa infezione da Covid causa una precoce cura a base di cortisone prescritta dai propri curanti. Anche i dati in letteratura cominciano a segnalare che i pazienti che utilizzano cortisone troppo precocemente hanno un andamento peggiore.
Eparina a basso peso molecolare (enoxaparina): la terapia eparinica viene raccomandata nelle linee guida dell’Aifa, in linea con le indicazioni della letteratura, in basso dosaggio (4000-6000 U.I.) nella profilassi degli eventi trombo-embolici solo nel paziente Covid con ridotta mobilità, e in dosaggi più elevati e dopo attenta valutazione, nei pazienti gravi con elevati livelli di D-dimero, un indicatore di trombosi o embolia polmonare. Molto spesso invece l’eparina viene consigliata preventivamente nei pazienti con tampone positivo. Ma occorre valutare sempre il rischio emorragico che si corre nella somministrazione. Un parametro può essere la gravità (l’International Society of Thrombosis and Haemostasis raccomanda la profilassi anti-trombotica in tutti i pazienti ricoverati per Covid-19) o il rischio personale di complicanze trombo-emboliche (es. età oltre 70 anni, obesità, neoplasia, pregressa malattia tromboembolica).
Azitromicina: estesamente utilizzato nella pratica clinica contro il Covid-19, ma non supportato dagli studi clinici e le linee guida, a questo antibiotico è ascritta, come agli altri della sua classe, i macrolidi, anche attività antinfiammatoria, immunomodulante e blandamente antivirale in vitro. Un ampio studio condotto in 57 centri ospedalieri brasiliani su 447 pazienti gravi ha concluso che l’aggiunta di azitromicina alla terapia standard non ha modificato le condizioni cliniche. Inoltre, non possono essere esclusi effetti avversi, in particolare sulla conduzione cardiaca con prolungamento dell’intervallo QT, disturbi elettrolitici, danni epatici e renali, soprattutto in associazione all’idrossiclorochina. Non ultimo, il suo uso indiscriminato sta ponendo le basi per l’insorgere di resistenze batteriche. Secondo Aifa, una revisione critica delle evidenze disponibili su efficacia e sicurezza depone al momento per la mancanza di un solido razionale al suo uso nei pazienti Covid. Va inoltre considerato che nessun antibiotico ha una funzione preventiva, ma va usato solo se ci sono segni di infezione batterica. Dagli studi disponibili in letteratura il tasso di co-infezione batterica in corso di Covid-19 è molto basso, in media del 7%, per cui non vi è indicazione a una sistematica somministrazione di antibiotici.
Concludendo, come spesso accade purtroppo nel campo della salute, l’onda emotiva, il panico, le informazioni deformate dai media portano talvolta a prendere decisioni impulsive e sconsiderate, con disprezzo, indifferenza e scetticismo verso i dati della scienza. Ciò rende ancora più fondamentale la diffusione di una informazione indipendente, professionale e autorevole che crei la giusta consapevolezza nella classe medica e nella popolazione. Proprio quello che non sta accadendo nella pandemia da Covid-19.