
La sottile linea tra udito e cervello: Aumento del rischio di demenza con ipoacusia

Tra udito e cervello esiste un intreccio invisibile. Non sentiamo solo con le orecchie, ma anche (e soprattutto) con il cervello. Il suono di una parola non attiva soltanto la corteccia uditiva, dove la parola viene “sentita”, ma accende numerose aree e reti del cervello dove viene ‘compresa’ o collegata da un punto di vista semantico e cognitivo.
Così, è dimostrato come gli elementi cognitivi - come la memoria a breve termine, l’elaborazione centrale e le esperienze di vita – siano cruciali per capire un discorso in un luogo rumoroso, più delle stesse capacità uditive. Un calo uditivo può infatti ridurre il volume della corteccia cerebrale, determinando cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello; mentre il declino cognitivo può peggiorare le capacità di ascolto e di comprensione delle parole, favorendo la comparsa dell’ipoacusia. Vanno poi considerati altri fattori, come lo stress e l’affaticamento generale, che possono aggravare ulteriormente gli effetti del calo dell’udito e del declino cognitivo. Tutto questo condiziona le nostre capacità cognitive nell’arco di tutta la vita.
Gli studi scientifici più recenti hanno dimostrato come i problemi di udito possano aumentare di oltre 3 volte il rischio di demenza e come, d’altra parte, le persone con un deficit cognitivo presentino in 3 casi su 4 anche un calo dell’udito. Inoltre dimostrano come la giusta amplificazione acustica si associ a un declino cognitivo più lento in un arco di 25 anni, permettendo di mantenere una buona funzionalità cerebrale. Si stima, dunque, che rallentare di un solo anno l’evoluzione dell’ipoacusia possa portare a una riduzione del 10 per cento del tasso di prevalenza della demenza nella popolazione generale.
Gli studiosi si interrogano sui fattori che possono attivare il circolo vizioso tra calo di udito e declino cognitivo. È certo, ad esempio, che l’ipoacusia determini cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello: ciò, secondo alcune teorie, potrebbe determinare una sotto-stimolazione delle aree normalmente attivate dai suoni, favorendo così un impoverimento cognitivo; un’altra ipotesi sottolinea, invece, l’affaticamento del cervello che, per compensare la perdita di udito, utilizzerebbe reti neuronali accessorie, riducendo così le risorse cognitive disponibili per svolgere tutte le altre funzioni. Altri studi puntano il dito contro l’isolamento sociale: infatti, le difficoltà comunicative connesse a un deficit uditivo possono favorire la solitudine delle persone, un fattore di rischio riconosciuto per la comparsa di disturbi cognitivi. Infine, si ipotizza che una stessa malattia micro vascolare possa essere comune a ipoacusia e ad alcune forme di demenza, favorendo l’insorgenza di entrambi i disturbi.
In conclusione, gli esperti concordano sull’importanza di invertire la rotta e di porre un freno al circolo vizioso: i più recenti studi scientifici dimostrano, infatti, come intervenire tempestivamente con una soluzione acustica permetta di rallentare il declino cognitivo e di migliorare le performance generali degli individui.
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